Nell’healthcare si va verso un pubblico che sa prendersi cura della salute o che si lascia ancora influenzare?
La comunicazione si confronta con i pensieri della gente e nasce il marketing sociale
Se il desiderio principale di un paese è creare una cultura della salute che sia la più ampia possibile, è necessario che sia messo continuamente in discussione il modo con cui notizie e informazioni sono comunicate alla popolazione. Detto in termini pratici, si deve cercare di dare il massimo affinché il messaggio sia posto in modo corretto e raggiunga il destinatario potendo così innescare una serie di azioni positive per il singolo e per la comunità. Usando termini più tecnici, significa compiere una segmentazione della propria audience per identificarne le abitudini e le preferenze nonché i linguaggi e i canali dove sia più opportuno veicolare il contenuto.
Cercando di capire meglio di che cosa stiamo parlando, può essere d’aiuto pensare a tutte quegli strumenti (sondaggi telefonici, e-mail, questionari scritti, sms, banner online, pubblicità radio-televisiva, etc.) che possono essere utilizzati per carpire informazioni e, contemporaneamente, in modalità push per indirizzare le persone verso una determinata scelta.
Accumulare progressivamente delle informazioni sugli individui, permette di delineare degli identikit (con tanto di dati demografici, caratteristiche principali e geolocalizzazione) per poi mettere insieme e caratterizzare veri e propri gruppi di soggetti accomunati da un orientamento comune di pensiero.
Uno degli esempi più concreti, per quanto distante dall’ambito salute, è quello delle elezioni presidenziali americane per le quali vengono messe in campo notevoli energie per “tastare il polso” dell’elettorato e cercare di plasmare il programma del candidato sulla base dei desideri espressi.
Prendiamo il caso delle elezioni che hanno visto rieletto Obama nel 2012. L’immensa mole di dati acquisiti in campagna elettorale è confluita in un unico database che si è rivelato molto utile negli anni seguenti. È tornato, infatti, in gioco per contribuire all’attuazione di uno dei provvedimenti più controversi e rappresentativi di questa presidenza: l’Obama-care.
Meglio noto come l’Affordable Care Act, si tratta dell’’insieme di norme concepite per estendere il diritto alla copertura assicurativa per le spese mediche a una fascia di popolazione che mai prima d’ora aveva potuto permetterselo (o se l’era visto togliere con la perdita del posto di lavoro).
Conoscendo in modo tanto dettagliato le situazioni lavorative e la composizione delle famiglie, è stato possibile metterle a conoscenza di questo loro diritto, istruirle sulla prassi da seguire per il suo ottenimento, convincere i più scettici della necessità di compiere questo passo ed essere accanto a coloro che da soli non ce l’avrebbero fatta.
Oltre a divenire dei mezzi per individuare i soggetti che possono avere bisogno di un determinato servizio, disporre di una simile mole di dati permette di rendere più efficace l’utilizzo delle leve di persuasione o mezzi di comunicazione volti a creare dinamiche commerciali del tutto nuove e incredibilmente vicine alle esigenze del cliente.
Questa tendenza si va perfettamente a inserire in uno scenario che, come suggerisce il Professor Christopher Lane in un suo recente articolo, potrebbe vederci presto protagonisti di vicende come quella accaduta a Tom Cruise nel film Minority Report (2002).
Il personaggio da lui interpretato, si trova a interagire con delle pubblicità che lo identificano mediante il riconoscimento facciale e gli fanno delle domande sugli acquisti. Guardando alla nostra quotidianità, le cose non sono molto diverse anche se molto meno eclatanti.
I messaggi commerciali che riceviamo, infatti, sono estremamente personalizzati, online come offline. Dagli algoritmi che memorizzano cosa e dove compriamo, all’uso dei cookies che tengono traccia dei nostri spostamenti sul web, sino al personale della grande distribuzione che alla cassa ci chiede il Codice di Avviamento Postale, siamo sottoposti anche noi a microtargeting, in quanto costantemente considerati potenziali clienti.
Anche sul New York Times viene ribadita la medesima tesi secondo cui le indagini destinate a comprendere pensieri e comportamenti delle persone si stanno diffondendo in molti paesi, in alcuni con una spiccata vocazione elettorale (neuro-politica) e in altri con notevoli connotazioni commerciali (neuro-marketing).
Chi lavora nel marketing cerca di avvicinare il brand al pubblico e questo suo lavoro è quasi diventato un esercizio di analisi psicologica. I ricercatori tentano di comprendere le dinamiche mentali retrostanti a ciascuna delle decisioni prese dai consumatori, cercando modi sempre più raffinati e rapidi per interpretarle.
Come nel caso del film citato prima, non può che nascere una riflessione circa i potenziali effetti collaterali di queste campagne che invisibilmente monitorano le risposte visive e uditive per poi rielaborarle e modificare il messaggio sino a raggiungere la modalità che i consumatori preferiscono.
Le applicazioni delle neuroscienze nella pubblicità commerciale stanno diventando sempre più influenti e lo stesso potrà accadere anche in ambito politico. Non passerà molto tempo, forse, prima che ci sentiremo chiamati individualmente da campagne interattive che utilizzano i volti di Donald Trump o Ted Cruz per chiederci dei nostri ultimi acquisti, cosa dovrebbero fare per ottenere il nostro voto, e il modo in cui potrebbero modificare i loro discorsi in modo da aiutarli a piacerci di più.
Nell’healthcare, dove i paletti entro cui muoversi sono stringenti e le comunità di pazienti sono molto attente, il minimo sospetto di messaggio eccessivamente promozionale e non a scopo divulgativo può causare un danno alla reputazione di chi sta cercando di fare informazione (sia esso azienda o soggetto istituzionale).
Indipendentemente dal fatto che l’obiettivo finale sia un cambiamento di mentalità o un’azione concreta, in ambito salute è importante imparare a conoscere l’interlocutore per innescare in lui la modifica o l’abbandono di un determinato comportamento.
Proprio il fatto che questa evoluzione debba avvenire in modo volontario la contraddistingue dalle altre e non sarebbe di certo raggiungibile applicando le tecniche di marketing tradizionale, ma solo grazie alla sua evoluzione definita marketing sociale che è incentrato sulla persona e non sul prodotto/servizio.
Per rendere ancora più chiaro il concetto, ci rifacciamo alle argomentazioni espresse da Fattori e Vanoli nel capitolo Il marketing sociale: opportunità e prospettive presente all’interno del “Secondo rapporto sulla comunicazione sociale in Italia” (Carocci Editore, Roma, 2011):
<<…nei Paesi a sistema sanitario pubblico di carattere universalistico, che garantiscono l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini e sono basati sul principio di solidarietà per promuovere il bene comune, il marketing sociale è l’applicazione di concetti e tecniche del marketing e di altre discipline per raggiungere obiettivi comportamentali volti a migliorare la salute individuale/collettiva e per contribuire a ridurre le disuguaglianze sociali, nell’ambito delle politiche della comunità di riferimento. Invece che per far conoscere un prodotto commerciale e venderlo, i concetti e le tecniche del marketing vengono quindi ripresi e applicati per un bene sociale, ossia un cambiamento volontario del comportamento tenuto dal gruppo di popolazione cui è diretto il messaggio…>>.
La speranza, in conclusione, è che riflessioni come queste portino a nuovi modelli di gestione e promozione della salute che considerino maggiormente il destinatario finale, senza divenire paziente-centriche. Ascoltare le sue esigenze e dargli contestualmente spazio e libertà per l’iniziativa personale porterà a un’alleanza molto positiva in termini di maggiore efficienza e qualità degli stessi servizi assistenziali.
Vanni Vischi
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